Non è la prima volta che suoni ed emozioni del Salento travalicano i confini naturali…
La donna da “zita” a “maritata” nei proverbi salentini
“Bedda, ricca, cu ffatica mutu e cu mangia picca” (Bella, ricca, che lavori molto e mangi poco): per l’uomo salentino la moglie ideale, anzi la “mujere” (dal latino “mulier”), deve avere questi requisiti minimi, almeno stando alla voce dei detti popolari che non si esauriscono di certo qui.
Tra le varie qualità, sembrerebbe farla da padrone la bellezza, meglio se acqua e sapone magari abbinata a un animo gentile: “Fimmana bbedda e ppulita, senza dota se mmarita” (Donna bella e pulita, si sposa anche senza dote). La ricchezza diventa necessaria solo in mancanza di un bell’aspetto (“Fimmana bbrutta, pe cquantu ngarbata, senza la dota nu sse troa spusata”, “Donna brutta, per quanto garbata, senza dote non si riesce a sposare”) anche se spesso poi la donna agiata è “pizziccusa” (litigiosa, capricciosa), tipologia che gli uomini mal sopportano assieme alla “linguta” (quella che parla troppo) e alla “nasitisa” (la ficcanasa). Parafrasando un popolare proverbio, allora, meglio una donna muta che non veda e non senta.
Ma innumerevoli altri difetti femminili emergerebbero dai paragoni con alcuni oggetti, concetti astratti o animali. La donna è come la castagna “de fore bbedda e dde intra mafagna” (bella fuori, marcia dentro); come la fame “ttocca lla ccuntenti quannu ole idda” (devi accontentarla quando vuole lei); come la scarpa “quannu te va’ comuda, s’à fatta vecchia” (quando ti va comoda, si è fatta vecchia); infine “Fimmine e caddine, se essene se perdene” (Donne e galline, se escono si perdono).
Poco importava che non fossero perfette, tanto il marito aveva la possibilità di correggerne i comportamenti con le maniere forti: “Mujere paccia, sànala cu la mazza” (Moglie pazza, guariscila a suon di bastonate). Del resto, per la donna il matrimonio era una necessità (“Fimmana nu maritata, fimmana male guardata”, “Donna non sposata, donna mal guardata”) e allora “Meju nu tristu maritu, cca restare de zzita parata” (Meglio un marito che lasci a desiderare, purché ci si sposi) e magari sottomessa ai familiari, in particolare ai fratelli (“Meju nu maritu zoppiceddu, cca nu frate mperatore”, “Meglio un marito che zoppica leggermente, di un fratello comandante”).
Ma mentre oggi si tende a bruciare le tappe, in passato prima del matrimonio c’era l’importante momento del fidanzamento ufficiale esemplarmente descritto con tanta ironia dal cantautore salentino Mino De Santis (foto) nel suo brano “Lu fidanzamentu”. Dopo un periodo di corteggiamento in cui all’innamorato bastava essere ricambiato con “l’occhiu rizzu” (l’occhiolino) per sentirsi felice, succedeva che i due giovani venissero sorpresi dalla gente del paese a parlare per strada. Immediatamente la cosa veniva riferita ai genitori e, a quel punto, al ragazzino toccava presentarsi in casa dell’amata con tutta la famiglia al seguito.
Lì, i due futuri consuoceri cominciano a chiacchierare davanti ad un bicchierino di liquore, mentre “la mamma travaiata – canta De Santis – caccia dolci e paste secche poi la coppa cu lle fiche” (la mamma indaffarata tira fuori dolci e pasticcini poi la coppa contenente i fichi). Si discute degli averi, della dote, si elogiano le qualità dei rispettivi figli, ma non mancano (e non solo nella canzone in oggetto) battibecchi sulla base di pettegolezzi fondati o meno.
Finalmente si arriva alla celebrazione delle nozze con annesso banchetto, tanto diverso (soprattutto prima del boom economico degli anni ’60) da quello di oggi, pur ancora sopravvissuto qua e là. Il ricevimento dopo la messa era diviso in due momenti, con la prima parte riservata ai familiari stretti: sulla tavola di casa (più tardi degli oratori che potevano ospitare più gente) il pregiato pane bianco con la mortadella (quotidianamente si usava quello di orzo o le friselle), pezzetti di carne di cavallo al sugo, polpette fritte, uova bollite, immancabilmente il vino. Alla seconda parte erano invitati amici, compari e vicini di casa che, dopo aver consegnato il regalo agli sposi (una busta con poche lire), si sedevano in cerchio all’interno della stanza e attendevano che venissero serviti “i complimenti” (i liquori versati in dei bicchierini), il caffè e i dolcetti di pasta di mandorla decorati con la frutta candita. Il tutto non durava più di 3 ore.
Per finire i figli, tanti figli, erano considerati il completamento necessario del matrimonio: “Fiji e cuperchi, nu ssu’ mai superchi” (Figli e coperchi, non sono mai troppi). Si sfornavano pargoli anche in condizioni economiche difficili e li si educava rigidamente (“Fiju troppu cuttentatu, nu rivesce custumatu”, “Figlio troppo accontentato, non diventa educato”), con la speranza che in futuro sarebbero stati delle ottime braccia da lavoro.
Allora, se così dev’essere, meglio incrociare le dita perché la propria moglie partorisca un bel maschietto. Mino De Santis canta ne “Lu masculazzu”: “Nu masculazzu me nciole pe’ primu / cusì me porta a nnanti la razza / ndaggiu lassare le case la terra / e alli vacchizzi m’ha fare te mazza” (Ho bisogno di un maschio come primo figlio che mi garantisca la continuazione della stirpe, gli devo lasciare in eredità le case e i terreni e deve fare da padrone agli armenti).
La saggezza popolare non sembrerebbe essere d’accordo col noto cantautore di Tuglie: “La bbona mmaritata, face fimmana la prima fiata” (La buona moglie, al primo parto, dà alla luce una femminuccia). Ma i proverbi non sono la verità assoluta e d’altra parte non fanno che rispecchiare la mutevolezza della realtà stessa impossibile da categorizzare rigidamente.
Ci siamo divertiti insomma, grazie al paziente lavoro di Nicola De Donno confluito nella sua ricca raccolta di proverbi salentini, quasi 17mila.