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L’olio del Salento
Per Dante, era un “liquor chiaro d’ulivi” (Divina Commedia, Purgatorio); per D’Annunzio un “liquido cristallo” (dalla raccolta poetica “Alcione”). Per i salentini è l’“oro verde” estratto dalle olive (il poeta latino Orazio decantava, nei “Carmina”, quelle di Taranto) che, a mo’ di preziosi monili, ornano le fronde degli ulivi, i secolari abitanti di quelle campagne cui dà il benvenuto un tappeto di terra rossa. Il “soggetto sottinteso”, l’avrete capito, è quell’olio dalle proprietà osannate fin dal passato.
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Prima di D’Annunzio, e ancor prima di Dante, ne parlavano e ne facevano uso già gli antichi Greci e Romani. Nel mondo classico, tante erano le sue virtù: da quelle curative a quelle cosmetiche (d’olio si ungevano i muscoli gli atleti vincitori, ma veniva utilizzato anche per massaggiare il corpo degli sportivi); da quelle purificatrici a quelle sacre (si credeva servisse a proteggere le statue degli dei dall’azione degli agenti atmosferici, ma erano frequenti anche le offerte votive in olio e l’impiego nei rituali religiosi).
Come si può notare, alcune di queste “usanze”, sacre e profane, sono vive ancora oggi: il liquido santo viene adoperato nei sacramenti della chiesa cattolica, mentre nel campo estetico si mettono in risalto le sue proprietà ringiovanenti (dato l’alto contenuto di lipidi che fanno benne alla pelle e di antiossidanti contro l’invecchiamento cellulare). Ancora, l’olio era un dono ieri come oggi, e non in senso figurato, perché veniva dato, e tuttora, in premio ai vincitori di certe competizioni: in Salento, a Serrano (frazione di Carpignano), dal 1996 si svolge la manifestazione “L’olio della poesia”, dove un quintale di olio extravergine d’oliva è offerto a chi si distingue nell’arte poetica.
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Per chi non lo sapesse, non solo fonti scritte documentano gli usi antichi dell’olio che abbiamo enumerato, ma anche le immagini dipinte sui vasi dell’epoca conservati nel Museo nazionale archeologico di Taranto (www.museotaranto.it).
Altri reperti importanti, che si sono dimostrati utili, invece, per la ricostruzione delle origini della produzione d’olio nel Salento, sono rappresentati dai cosiddetti “pithoi”, grandi vasi (simili ai “capasuni”, in dialetto) ritrovati a Roca (Melendugno) in seguito ad alcuni scavi del 1990. Attesterebbero che nel Salento si produceva olio già nel 1300 a.C.
Le tecniche produttive, com’è immaginabile, si sono affinate nei secoli, e dai primi impianti d’estrazione in legno si è giunti, in epoca romana, al “trapetum”, l’antenato di quei “trappeti” salentini (frantoi ipogei) che si sono mantenuti in vita fino al secolo Ottocento, ma ancora oggi molti di essi sono visitabili (a Gallipoli, Giurdignano, Sternatìa, Zollino, Trepuzzi, Melendugno, Vernole, Minervino) ed attirano la curiosità dei turisti.
Intanto, vi sveliamo che il trappeto non era un semplice luogo di lavoro, ma un mondo a sé stante: al suo interno, gli uomini, insieme agli animali, avevano dimora fissa, abbandonandolo solo in occasione delle feste comandate. La “ciurma” (il gruppo degli operai) lavorava ininterrottamente, dunque, capitanata dal “Nachiro” (la terminologia usata era quella che definisce l’equipaggio di una nave): un mulo bendato faceva girare la ruota che schiacciava le olive, poi il composto veniva fatto riposare nei “fisculi” e, infine, sottoposto alla pressatura.
Il prodotto finale, cioè l’olio, era destinato soprattutto all’illuminazione e alla produzione di sapone (in occasione dei presepi viventi odierni, si può ancora assistere all’antico processo di lavorazione del sapone). Dal porto di Gallipoli, infatti, partivano le navi dirette a Marsiglia, famosa per i suoi saponi.
Il Settecento fu il secolo in cui il commercio dell’olio fu più proficuo, dai porti di Brindisi, Taranto, Otranto, ma soprattutto da quello di Gallipoli. I gallipolini intrattenevano rapporti, soprattutto, coi mercanti veneziani, ma anche con tanti altri di varia nazionalità. In quell’epoca, il medico gallipolino Giovanni Presta inviò dei campioni d’olio, addirittura, a Caterina di Prussia, che ricambiò con duecento zecchini d’Olanda e un medaglione d’oro.
L’olio, ieri, era apprezzato dalle regine, oggi è il re delle tavole salentine e no. Serve a conservare i cibi (i famosi prodotti sottolio, già esistenti in epoca romana), condisce i piatti più raffinati, ma viene gustato meglio in quelli della tradizione: sulla “bruschetta” (fetta di pane sulla brace) e sui “morsi” (pane fritto abbinato ai legumi), pasti poveri che spopolavano negli antichi frantoi ipogei, ancora sulla “frisa” e nell’“acqua e sale” (a base di pane raffermo bagnato).
D’altra parte, proprio con queste pietanze semplici, condite con l’ottimo extravergine salentino, s’identifica il Salento ancora oggi, e possiamo dirlo con certezza, se Mino De Santis, cantautore locale del 2012, ama definirlo “nna friseddhra ghe n’acqua e sale…” (una frisa, un’acqua e sale…).
Per approfondire, si consiglia la lettura di Rina Durante, L’olio del Salento, Besa, 2005.
(Per l’ultima foto, ringraziamo OleariaSchirinzi su http://www.flickr.com/photos/oleariaschirinzi/7163300708/sizes/m/in/photostream/; per la featured image, Gianluca Bocci su http://pinterest.com/pin/235313149250284349/)