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Un’antica tradizione acquaricese: l’intreccio del giunco
La lavorazione del giunco è sempre stato un elemento caratterizzante del paese di Acquarica del Capo, qui avevano casa le sporte, i cestini realizzati a mano con fibre naturali.
Il soprannome assegnato agli abitanti di Acquarica del Capo, gli spurtari, proviene, quindi, dalla loro grande abilità artigianale. C’era almeno una donna per casa, giovane o anziana, che intrecciava “lu paleddhu” seduta per terra, su una coperta o un sacco di iuta. Spesso le spurtare erano chiamate con ironia “culitorte” per il lunghissimo tempo che trascorrevano sedute a terra.
Il lavoro delle cestaie era, spesso, svolto da persone che svolgevano un altro lavoro e che, per arrotondare i guadagni, facevano anche questo lavoro. Attualmente la produzione è ridotta al minimo e il settore rischia la totale estinzione.
Acquarica del Capo, patria delle sporte, era un piccolo centro agricolo di origine medievale. Tra le paludi salentine questo paesino si distingueva per l’antica arte di intreccio del giunco. Era nel lontano 1879 che le donne acquaricesi iniziarono a dedicarsi all’attività dell’intreccio del giunco per realizzare cestini di uso quotidiano, dagli accessori per contenere le olive, i prodotti della terra ai contenitori di formaggio, dette “fiscelle”. Nei periodi più critici, questi manufatti erano preziosa merce di scambio e venivano barattati in cambio di prodotti alimentari.
La manualità e praticità di questi oggetti, li portò ad essere richiesti non solo tra i mercati paesani del Salento ma anche oltre. A partire del ‘900, dopo esser stati messi in mostra all’Esposizione mondiale di Vienna nel 1873 e alla Mostra Nazionale di Torino, questi manufatti artigianali superavano i confini nazionali per raggiungere paesi come l’Inghilterra, la Germania, la Svizzera e l’America.
Il giunco palustre, “palèddhu”, veniva raccolto nelle paludi di Avetrana, nella zona di Ugento e Acaja e sottoposto ad alcuni trattamenti per facilitarne la lavorazione. Per essere più malleabile, flessibile e resistente, prima di lavorarlo, il giunco veniva sottoposto ad una serie di passaggi: la bollitura, l’essiccazione e la zolfatura. I lavori più duri erano eseguiti dagli uomini ma le operazioni finali erano di competenze delle “spurtare”, abili donne che sapientemente incrociavano due o più mazzetti di fili e che, per facilitare l’intreccio, bagnavano il giunco attingendo ad una bacinella d’acqua.
Le dita si muovevano velocemente spostando i fili di paleddhu a sinistra e destra, sopra e sotto intrecciandoli tra loro. Via via che si procedeva con l’intreccio, i fili diventavano sempre più corti e occorreva inserirne degli altri in un continuum senza fine.
La tipologia di intreccio variava in funzione del tipo di prodotto ma anche in base allo stadio di lavorazione: il fondo, i fianchi, l’orlo finale.
Le artiste, così possiamo chiamarle, creavano in base al proprio estro e maestria un articolo che fosse il punto d’incontro di vari stili di intrecci o con l’inserimento di fili di paleddhu colorati.
Poi, dalla fase di lavorazione grezza si passava alla rifinitura dell’oggetto: con le forbici si tagliavano i pezzetti di paleddhu sporgenti, si profilava l’orlo tagliando e pareggiando i fili di paleddhu sovrabbondanti. Quando il prodotto lo richiedeva, si lavoravano le ricchie, i manici, le fiette o trecce che fungevano da finitura dell’orlo.
I commercianti, con una certa cadenza, passavano per ritirare il materiale prodotto, si facevano i conti per ciascun lavoro e si davano indicazioni sul tipo e le quantità di prodotti da lavorare per il prossimo giro: panare, canisce, nasse per i pescatori, i rivestimenti delle damigiane per l’olio e il vino che dovevano essere molto robusti per sostenere pesi superiori ai 50 chili.
Ogni commerciante, e ce n’erano diversi, aveva le sue spurtare di fiducia che producevano in esclusiva per un dato commerciante.
Il 27 dicembre 2008, all’interno di Palazzo Villani, in Piazza dell’Amicizia, è stato inaugurato il Museo del Giunco ad Acquarica del Capo.
Tra le teche del museo si può ammirare anche il Presepe di Giunco, un capolavoro realizzato circa 40 anni fa per mano dalla signora Addolorata Olimpio e donato dai figli al Comune.
Nonostante quest’arte sia andata quasi perduta, dopo gli anni ’60, ci sono però alcuni vecchi artigiani da poter ammirare, un laboratorio operativo è quello al civico 12 di via Puglia: Lu Panaru di Patrizio Siciliano.
Inoltre, l’ Agenzia Formativa Ulisse, ente accreditato dalla Regione Puglia per la gestione della formazione professionale, in collaborazione con l’Istituto dei Ciechi Anna Antonacci di Lecce ha organizzato la mostra “L’arte dell’intreccio” che presentava tutte le opere realizzate dalle allieve del corso “Intrecciatore di Fibre Vegetali”.
Tale progetto ha un ruolo più ampio: recuperare un antico mestiere salentino a rischio di estinzione e fornire gli strumenti innovativi e competenze teorico-pratiche necessarie per favorire lo sviluppo e l’occupazione nell’ambito dell’artigianato di qualità. Nella mostra finale sono stati riassunti e i gesti dell’artigiano nell’atto di intrecciare le fibre vegetali e le contaminazioni con altre materie, come il design. La tradizione e la contemporaneità non devono restare estranee ma trovare nuovi punti di congiunzione dai quali sviluppare linguaggi creativi rinnovati.